Il tiglio della discordia
Quel giorno che la nonna stava male ero bambina. Venne il parroco a trovarla, restarono soli nella stanza. Fu una discussione tribolata. A un certo punto la sentimmo urlare e, quando accorremmo, ci disse concitata: “Il tiglio non si tocca. Me lo ha chiesto il parroco, ma io non lo abbatterò mai!”.
E’ uno dei ricordi più vivi che ho della mia infanzia. Il tiglio fu piantato poco prima del 1900, nell’autunno di San Martino, da mia madre appena ventenne. Lo collocarono all’angolo estremo del giardino, per dimostrare il possesso della proprietà, come si usava allora. Venne su dritto, alto e bello.
E arrivarono i problemi con la parrocchia.
All’inizio fu una piccola discussione, perché le foglie che cadevano si ammassavano all’ingresso della chiesa, creando una marea giallo-oro: bellissima a vedersi, ma per qualcuno evidentemente era una scocciatura.
Per evitare malumori venivo mandata a scopare le foglie insieme ad altri bambini. Poi l’albero, sviluppandosi nella chioma, rese buia la cucina della casa parrocchiale e tra il tiglio e mons. Schierano, uomo di grande intelligenza e amico dei miei genitori, iniziò un rapporto di amore e odio. In estate la pianta era la benvenuta, gettava miriadi di fiori, che davano da mangiare alle api: noi bambini eravamo invitati dagli adulti a succhiare i favi, ed era una festa. Ma in altri momenti dava evidentemente fastidio: il ricordo della nonna che urlava durante il colloquio con mons. Schierano risale a quel periodo. Quando vennero altri sacerdoti, la storia tra loro e il tiglio proseguì con alterne fortune.
Dopo don Schierano arrivò con Piero Gagliardi, un giovane prete che amava giocare con i bambini, e l’albero visse qualche anno di tranquillità in mezzo a piccole schermaglie: come quando si trattò di far passare i fili della luce e del telefono lungo la sua direttrice. Con l’attuale parroco, don Giuseppe Torta, gli inizi non furono facili: in un primo momento si fece vedere decisamente ostile verso il tiglio, ci fu un po’ di guerra…
Scomparsa la nonna, toccò soprattutto a mio padre prendere le difese dell’amata pianta. Con lui ci fu più battaglia, era un militare, uno che combatteva per carattere. Amava molto gli alberi, da giovane aveva studiato Scienze naturali e dalla Cina portò un grande erbario, che seguì sempre con estrema cura. Il tiglio trovò in lui un alleato e un protettore sincero.
Intanto, però, cresceva e continuava a oscurare la casa del parroco. Alla fine don Torta ebbe un’idea geniale, forse dettata dall’esasperazione: trasferì la cucina da un’altra parte dell’edificio, si ritirò a vivere dove il sole fa sentire i suoi effetti benefici al mattino… Fu la svolta.
Oggi mi pare che questo vecchio tiglio, ormai divenuto secolare, non sia più motivo di separazione, ma di unione per il paese, di cui ha finito per diventare simbolo. Sarei contenta se si potesse salvaguardare con qualche forma di tutela appropriata e duratura, perché le insidie possono arrivare solo dagli uomini.
Se chiudo gli occhi, ancora oggi la prima cosa che mi viene in mente delle vacanze estive a Villa è il tiglio. Per me è sempre stato sinonimo di casa, serenità. Da giovane leggevo protetta dalle sue fronde e nella mia lunga vita, nonostante abbia abitato a Roma e in varie parti del mondo, ho sempre cercato di trascorrere i mesi caldi sotto la sua ombra.
Lui parla quando c’è vento di tramontana, stormisce: mi avverte che sta arrivando il freddo.
Io lo ringrazio di esserci, di regalarmi questo senso di evasione che ho ereditato fin da giovane, quando avevo l’illusione che, oltre le sue fronde, ci fosse la campagna – dal mio particolare angolo la parrocchia non si vedeva -, uno spazio aperto, di libertà piena.
La sua fierezza mi riempie di orgoglio: nel tempo ha fatto a gara con la chiesa, è venuto su dritto e alla fine l’ha eguagliata in altezza, arrivando fino al tetto e ricavandosi lo spazio di cui aveva bisogno. E’ riuscito a raggiungere il cielo libero.
E a me ha fatto sognare.
Da giovane le case di Villa erano in comunicazione attraverso un corridoio sotterraneo, poi chiuso: ho sempre immaginato le radici del tiglio avventurarsi silenziose in quei passaggi, verso spazi intimi, segreti.
Ci sono stati momenti in cui ho avuto paura per lui, soprattutto quando ha dovuto subire qualche mutilazione per colpa di potature mal fatte: ho temuto, con la stessa ansia di una madre per il proprio figlio, che avrebbe potuto risentirne. Ma ha sempre avuto la forza di reagire, in questo lungo tempo in cui l’hanno visto i miei occhi ha sempre vinto lui.
Voglio pensare che continuerà a essere così.
testimonianza di Rosa Cristina Salza tratta dal libro La casa sull’albero di Laura Nosenzo, Edizioni Impressioni Grafiche, 2003
Rosa Cristina Salza (Casale Monferrato, 16-7-1919), soprannominata Titti, è moglie dell’ambasciatore scomparso Giovanni Stefano Rocchi: con lui ha vissuto tra Roma, Ginevra e Bogotà.
Ha avuto un’infanzia felice, trascorsa in estate nella casa dei nonni a Villa San Secondo: dalla nonna fin da piccolina ha imparato a potare le rose sviluppando, anche grazie all’amore del padre per la botanica, una forte passione per alberi e fiori. Nel giardino della villa, dove l’azzeruolo regalava piccole mele rosse, resistono piante di cachi quasi secolari, tra le prime a comparire in Piemonte.
Appassionata di musica e lettura, ama regalare alla persone più care il libro L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono.
Il tiglio di Rosa Cristina Salza spicca sulla sommità di Villa San Secondo (15 km da Asti), dinanzi alla chiesa parrocchiale dei SS. Matteo e Secondo, considerata una delle più belle pievi del Monferrato astigiano. Per la sua imponenza, l’albero è chiaramente visibile dal fondovalle.