Nei dintorni

Il tiglio della discordia

Quel giorno che la nonna stava male ero bambina. Venne il parroco a trovarla, restarono soli nella stanza. Fu una discussione tribolata. A un certo punto la sentimmo urlare e, quando accorremmo, ci disse concitata: “Il tiglio non si tocca. Me lo ha chiesto il parroco, ma io non lo abbatterò mai!”.

E’ uno dei ricordi più vivi che ho della mia infanzia. Il tiglio fu piantato poco prima del 1900, nell’autunno di San Martino, da mia madre appena ventenne. Lo collocarono all’angolo estremo del giardino, per dimostrare il possesso della proprietà, come si usava allora. Venne su dritto, alto e bello.

E arrivarono i problemi con la parrocchia.

All’inizio fu una piccola discussione, perché le foglie che cadevano si ammassavano all’ingresso della chiesa, creando una marea giallo-oro: bellissima a vedersi, ma per qualcuno evidentemente era una scocciatura.

Per evitare malumori venivo mandata a scopare le foglie insieme ad altri bambini. Poi l’albero, sviluppandosi nella chioma, rese buia la cucina della casa parrocchiale e tra il tiglio e mons. Schierano, uomo di grande intelligenza e amico dei miei genitori, iniziò un rapporto di amore e odio. In estate la pianta era la benvenuta, gettava miriadi di fiori, che davano da mangiare alle api: noi bambini eravamo invitati dagli adulti a succhiare i favi, ed era una festa. Ma in altri momenti dava evidentemente fastidio: il ricordo della nonna che urlava durante il colloquio con mons. Schierano risale a quel periodo. Quando vennero altri sacerdoti, la storia tra loro e il tiglio proseguì con alterne fortune.

Dopo don Schierano arrivò con Piero Gagliardi, un giovane prete che amava giocare con i bambini, e l’albero visse qualche anno di tranquillità in mezzo a piccole schermaglie: come quando si trattò di far passare i fili della luce e del telefono lungo la sua direttrice. Con l’attuale parroco, don Giuseppe Torta, gli inizi non furono facili: in un primo momento si fece vedere decisamente ostile verso il tiglio, ci fu un po’ di guerra…

Scomparsa la nonna, toccò soprattutto a mio padre prendere le difese dell’amata pianta. Con lui ci fu più battaglia, era un militare, uno che combatteva per carattere. Amava molto gli alberi, da giovane aveva studiato Scienze naturali e dalla Cina portò un grande erbario, che seguì sempre con estrema cura. Il tiglio trovò in lui un alleato e un protettore sincero.

Intanto, però, cresceva e continuava a oscurare la casa del parroco. Alla fine don Torta ebbe un’idea geniale, forse dettata dall’esasperazione: trasferì la cucina da un’altra parte dell’edificio, si ritirò a vivere dove il sole fa sentire i suoi effetti benefici al mattino… Fu la svolta.

Oggi mi pare che questo vecchio tiglio, ormai divenuto secolare, non sia più motivo di separazione, ma di unione per il paese, di cui ha finito per diventare simbolo. Sarei contenta se si potesse salvaguardare con qualche forma di tutela appropriata e duratura, perché le insidie possono arrivare solo dagli uomini.

Se chiudo gli occhi, ancora oggi la prima cosa che mi viene in mente delle vacanze estive a Villa è il tiglio. Per me è sempre stato sinonimo di casa, serenità. Da giovane leggevo protetta dalle sue fronde e nella mia lunga vita, nonostante abbia abitato a Roma e in varie parti del mondo, ho sempre cercato di trascorrere i mesi caldi sotto la sua ombra.

Lui parla quando c’è vento di tramontana, stormisce: mi avverte che sta arrivando il freddo.

Io lo ringrazio di esserci, di regalarmi questo senso di evasione che ho ereditato fin da giovane, quando avevo l’illusione che, oltre le sue fronde, ci fosse la campagna – dal mio particolare angolo la parrocchia non si vedeva -, uno spazio aperto, di libertà piena.

La sua fierezza mi riempie di orgoglio: nel tempo ha fatto a gara con la chiesa, è venuto su dritto e alla fine l’ha eguagliata in altezza, arrivando fino al tetto e ricavandosi lo spazio di cui aveva bisogno. E’ riuscito a raggiungere il cielo libero.

E a me ha fatto sognare.

Da giovane le case di Villa erano in comunicazione attraverso un corridoio sotterraneo, poi chiuso: ho sempre immaginato le radici del tiglio avventurarsi silenziose in quei passaggi, verso spazi intimi, segreti.

Ci sono stati momenti in cui ho avuto paura per lui, soprattutto quando ha dovuto subire qualche mutilazione per colpa di potature mal fatte: ho temuto, con la stessa ansia di una madre per il proprio figlio, che avrebbe potuto risentirne. Ma ha sempre avuto la forza di reagire, in questo lungo tempo in cui l’hanno visto i miei occhi ha sempre vinto lui.

Voglio pensare che continuerà a essere così.

testimonianza di Rosa Cristina Salza tratta dal libro La casa sull’albero di Laura Nosenzo, Edizioni Impressioni Grafiche, 2003

Rosa Cristina Salza (Casale Monferrato, 16-7-1919), soprannominata Titti, è moglie dell’ambasciatore scomparso Giovanni Stefano Rocchi: con lui ha vissuto tra Roma, Ginevra e Bogotà.

Ha avuto un’infanzia felice, trascorsa in estate nella casa dei nonni a Villa San Secondo: dalla nonna fin da piccolina ha imparato a potare le rose sviluppando, anche grazie all’amore del padre per la botanica, una forte passione per alberi e fiori. Nel giardino della villa, dove l’azzeruolo regalava piccole mele rosse, resistono piante di cachi quasi secolari, tra le prime a comparire in Piemonte.

Appassionata di musica e lettura, ama regalare alla persone più care il libro L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono.

Il tiglio di Rosa Cristina Salza spicca sulla sommità di Villa San Secondo (15 km da Asti), dinanzi alla chiesa parrocchiale dei SS. Matteo e Secondo, considerata una delle più belle pievi del Monferrato astigiano. Per la sua imponenza, l’albero è chiaramente visibile dal fondovalle.

Mombarone, Case Grotta

Nell’astigiano, oltre alle case costruite con mattoni crudi e “pisè”, esiste un fenomeno edilizio locale che impiega la terra con modalità più dirette, siamo infatti in presenza di insediamenti “scavati” nella terra, riconducibili a costruzioni e frequentazioni non ancora puntualmente databili, ma utilizzate fino a periodi recenti, vale a dire fino alla metà del Novecento.

Nel bacino del Mediterraneo, grazie alle particolari condizioni climatiche e geo-morfologiche, l’insediamento ipogeo è largamente diffuso e documentato fin dall’antichità. In Italia numerosi riscontri si hanno soprattutto nelle regioni centro-meridionali, basti pensare ai Sassi di Matera, a Gavina in Puglia, alle abitazioni rupestri di Melfi, alle chiese ipogee di Torre del Greco, o alla Sardegna; mentre al nord, pur trattandosi di una tipologia presente in gran parte dell’arco alpino e prealpino come nel caso degli insediamenti dei monti Berici in provincia di Vicenza, raramente si registrano veri e propri complessi realizzati completamente dall’uomo e non solo forme di utilizzo di cavità esistenti, a volte chiuse verso l’esterno da muri in pietra o , più di recente, in mattoni.

A nord ovest di Asti, in corrispondenza della dorsale collinare compresa tra la Val Rilate e la valle del Fosso della Galleria che sfocia più a sud nel Torrente Versa, si trovano alcuni gruppi di case scavate nei declivi di depositi sabbio-terrosi sedimentatisi nel Pliocene ( 5 – 2 milioni da anni addietro) a formare le colline a nord del Tanaro, geologicamente appartenenti alle sabbie d’Asti e , più di recente, al Villafranchiano.

La denominazione “casa” appare appropriata, poiché non si tratta del solito “crutin” (canti netta) di pertinenza a moltissime abitazioni piemontesi in cui l’edificio si prolungava sottoterra in piccoli ambienti, destinati perlopiù alla conservazione della parte migliore della produzione vinicola d’annata; e neppure si tratta dei vani scavati nel fianco della collina, adiacente alla cascina utilizzati per il ricovero dei carri e degli attrezzi durante la cattiva stagione.

Gli ambienti isolati, o concatenati da una serie di passaggi interni, ricavati nei sabbioni di terra gialla delle colline a nord di Mombarone e nei comuni di Cossombrato e di Castell’Alfero sono delle vere e proprie case: delle abitazioni, in cui sono riconoscibili ambienti deputati alla cottura e consumazione dei cibi: la cucina; ambienti per il riposo: la camera da letto; la sala di soggiorno, dalle caratterizzanti decorazioni parietali; i rustici con stalla, le stie per il pollame, i conigli; le cisterne per la racconta delle acque meteoriche; i focolari esterni, ecc…

A Mombarone, da anni, numerosi volontari appartenenti all’associazione “Quattro passi a nord-ovest” guidati da monsignor Vittorio Croce, da Claudio Acquilini e dai fratelli Franco stanno lavorando al recupero di tali documenti volumetrici che conservano il fascino assoluto di un’epoca di storica sopravvivenza identificabile probabilmente tra il Settecento e la metà del Novecento, periodo in cui vennero poi definitivamente abbandonate. Si tratta di un arco di tempo denso di difficoltà per le popolazioni piemontesi che culmina, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, con un accentuato aumento demografico, concomitante ad una produzione agricola insufficiente a sfamare tutta la popolazione,non ancora inurbata nelle nascenti città industriali. Tale periodo, così privo di mezzi di sussistenza, rese ambiti, come abitazioni, anche i cavi creati in origine, con molta probabilità , per altri scopi quali ricovero degli attrezzi per la lavorazione delle vigne. Nel primo gruppo di case scavate nella terra, site nel comune di Asti località Mombarone, recuperate da “Quattro passi a nord-ovest” sono oggi riconoscibili due abitazione che si affacciano, quasi alla sommità, di un erto pendio boscoso, all’inizio del secolo coltivato a vigneto. In realtà a breve distanza esistono altri ingressi e cavità, non ancora indagate, che farebbero pensare ad ulteriori presenze di nuclei abitativi: un vero e proprio villaggetto posto sul costone collinare dominante la fontana di acqua sorgiva del Boglietto. A metà del pendio una seconda sorgente garantiva l’approvvigionamento dell’acqua alle famiglie che abitavano nei cavi di terra. Salendo dalla fontana del Boglietto si incontra per prima la casa di proprietà dei fratelli Franco: su un ampio terrazzamento si aprono partendo da ovest un vano destinato a stalla scavato per circa sei metri verso la collina, procedendo verso est delimitato da una quinta in muratura è il nucleo di abitazione che si sviluppa in profondità all’interno della collina per circa 10 metri: il primo ambiente è la cucina con l’alloggiamento del tubo della stufa a legna, ricavato nella parete comunicante con l’esterno; separata da un muro di mattoni è una vasta camera, probabilmente da letto, e al termine dello scavo un piccolo ambiente con anche il muro divisorio scavato nella terra sabbiosa, è destinato forse a dispensa e cantina a giudicare dalle nicchie ricavate opportunamente lungo le pareti.

La vocazione agricola degli abitanti delle case ipogee di Mombarone è sottolineata dalla preponderanza degli ambiti destinati a ricovero di attrezzi e carri, prodotti della terra e l’allevamento, rispetto all’abitazione.

Foto: Emilio Maltoni (panoramio.com) – Fonte: www.valrilate.it

Montechiaro d’Asti, Santi Nazario e Celso

La chiesa sorse tra la fine dell’XI e l´inizio del XII secolo, nell’abitato ora scomparso di Mairano i cui abitanti, fin dall’inizio del XIII secolo, confluirono massicciamente nella villanova di Montechiaro dove fu costruito il nuovo oratorio di S. Bartolomeo. Il titolo della nuova parrocchiale continuò però ad essere quello dei Santi Nazario e Celso e tale rimase fino al 1752. La chiesa originaria dei santi Nazario e Celso dipendeva dall’abbazia benedettina della Torre Rossa di Asti.

Nel 1585, versando in pessimo stato, non vi si celebrava messa che una volta all’anno. Nel 1838 le condizioni continuavano a non essere buone, al punto che nel 1845 il vescovo ordinò che la messa che tradizionalmente si celebrava per la festa del Santo, si dicesse all’aperto. Due anni più tardi l´edificio veniva in parte demolito e riedificato nel 1849.

L´edificio che osserviamo appare così in dimensioni più ridotte di un tempo. Interventi di restauro furono compiuti negli anni 1929/30 e, recentemente, nel 1982 sul campanile, ad opera della Sovrintendenza ai Monumenti. Vari lavori di consolidamento della chiesa e del campanile, di pulitura, di restauro della facciata e dell’abside (ove venne alla luce un dipinto del XIV secolo: la figura appare curiosamente scomposta a riprova dello smontaggio e rimontaggio dei blocchi allora intonacati), furono eseguiti grazie ai fondi del Giubileo e terminati per la festa di San Nazario del 2000.

La chiesa si erge isolata, in zona collinare, a circa 2 km in direzione nord, nord-ovest dal concentrico di Montechiaro d´Asti, visibile da tutta la vallata. La pianta è ad aula rettangolare con abside semicircolare. La facciata è decorata da fasce alternate di mattoni e di pietra arenaria, con un arco sopra il portale, ornato con una fascia a motivi geometrici e floreali, delimitata agli estremi da paraste angolari.

Il fianco sud, anch’esso con paramento a fasce alterne, termina con una serie di archetti pensili e una cornice a intreccio; l´abside ripete in parte l´andamento della facciata con fregi elegantemente elaborati. La torre campanaria, a base quadrata, è di particolare interesse, non solo per le notevoli dimensioni in rapporto alla chiesa, ma anche e soprattutto per la ricca decorazione formata da motivi a scacchiera, a denti di sega e archetti incrociati. I rilievi a stucco dell’interno, le volte del semicatino, l´arco trionfale impostato su semicolonne e la volta a botte a sesto ribassato dell’aula, appartengono al rifacimento ottocentesco.

Montechiaro d’Asti, Santa Maria Assunta – Pieve di Piesenzana

La chiesa dello scomparso borgo di Piesenzana è citata come sede di pieve dall’inizio del X secolo. Pare che i beni fondiari che essa possedeva in zona comprendessero – intorno alla metà del XII secolo – le chiese di S. Michele (adiacente a Piesenzana e successivamente scomparsa), di Cunico, di S. Martino di Cunico, di Cortanze e di altri luoghi oggi scomparsi. In seguito al trasferimento degli abitanti dei centri più antichi nella villa nova di Montechiaro (1200), la pieve decadde d’importanza. Sul finire del 1297 il capitolo dei Canonici della Cattedrale di Asti, decise di alienare l’ingente patrimonio fondiario che faceva capo a Piesenzana (Cortanze, Piea, Alboreto). Il titolo di pieve viene trasferito in Santa Caterina a Montechiaro. Ciononostante la chiesa di Santa Maria rimane parrocchiale fino al 1662, quando il vescovo Roero ne decreta la riduzione a cappella campestre, essendo oramai quasi del tutto distrutta. Nella prima metà del XVIII secolo la chiesa venne restaurata, poiché il vescovo Felizzano la troverà, nel 1742, in buone condizioni, anche se vi si celebrava solo saltuariamente.

Sul principio del secolo successivo venne constatata la fatiscenza dell’edificio per cui – nel 1808 – venne riedificato, conservando tuttavia gran parte delle strutture originarie dell’abside. Ancora nel 1838 risultava in condizioni decorose e necessitava solo di alcune riparazioni non sostanziali. Si ritiene che l’attuale edificio dovesse presentare, in origine, un’aula più lunga e non è neppure da escludere l’ipotesi di un primitivo impianto a tre navate. Dell’originaria fase costruttiva, presumibile (stante l’aggettivo “antichissimo” attribuito al coro) e non accertata, rimangono solo l’impianto dell’abside e qualche concio lapideo, inserito nelle murature.

Foto: Alessandro Bianco (panoramio.com) – Fonte: www.valrilate.it

Cinaglio – San Felice

Secondo l’Eydoux, si riferisce all’area di Cinaglio l’attestazione – nell’897 – di terre e vigne dette “di S. Felice”, che farebbe pensare all’esistenza, fin dal IX secolo, di una fondazione ecclesiastica preesistente. Nel 1246 la chiesa di S. Felice appare tra le coerenze di beni appartenuti a canonici del capitolo di Asti e tenuti dagli uomini di Cinaglio.

Nel registro diocesano del 1345 la chiesa viene indicata come dipendente dalla pieve di Montechiaro, direttamente nelle mani dei medesimi canonici. Conformemente a quanto avvenuto per analoghi antichi edifici di culto, San Felice viene nel 1585 definita cappella campestre, anche se ancora nel Settecento si era perpetuata la memoria delle antiche funzioni parrocchiali. La pianta dell’edificio, che si trova nei pressi del cimitero, si presenta oggi ad aula rettangolare, con abside semicircolare e corpo laterale aggiunto. È stato oggetto di numerosi interventi nel corso dei secoli che hanno modificato il primitivo organismo.

La facciata è barocca, l’interno – con volte a vela molto ribassate – pare di fattura ottocentesca, mentre gli stucchi che ornano l’arco trionfale appaiono cinquecenteschi. L’abside, semicircolare, che si appoggia al muro di fondo dell’aula, scandita in quattro campiture da tre lesene in mattoni, è coronata da un fregio ad archetti pensili laterizi che poggiano su dentelli sagomati.

Riportato all’originale da un recente restauro il grande affresco absidale, forse il più bello, certamente il più completo dell’astigiano, che dovrebbe risalire al XIV secolo. Campeggia al centro la classica figura del Cristo Pantocratore o Dominatore inscritto in una mandorla iridata e seduto sull’arcobaleno con la destra levata a chiedere ascolto e la sinistra a reggere il globo terrestre. Intorno al Cristo i simboli degli evangelisti: dalla sinistra in basso il leone di san Marco, l’aquila di san Giovanni, l’uomo-angelo di san Matteo e il bue di san Luca. Alla destra del Pantocratore, Maria Vergine che presenta il nobile committente, alla sinistra san Felice vescovo e martire. Nella fascia sottostante, di nuovo al centro il Cristo (questa volta imberbe) con il libro in mano; accanto a lui i dodici apostoli (san Paolo al posto di san Mattia), indicati col nome e con il simbolo proprio.

Foto: Elio Maltoni (panoramio.com) – Fonte: www.valrilate.it

Chiusano d’Asti – Santa Maria

La chiesa di Santa Maria di Chiusano compare nel registro delle chiese astigiane del 1345. Insieme ad altre chiese della zona (Settime, Serravalle, Frinco e altre), dipendeva dalla Pieve di Cossombrato. Nel 1585 viene definita – nella relazione di visita pastorale – “chiesa campestre e cimiteriale”. Conservava ancora il titolo di parrocchiale ma, essendo molto decentrata rispetto all’abitato e quindi scomoda per la popolazione, le funzioni religiose si svolgevano da molti anni nella chiesa di S. Martino, sorta al centro del paese. In seguito il degrado divenne irreversibile, nonostante i ripetuti inviti vescovili a provvedere al suo restauro onde consentire almeno una celebrazione annuale in suffragio dei defunti, che nel sito antistante – per lungo tempo – avevano trovato sepoltura.

Finalmente nel 1695 la chiesa apparve al vescovo Milliavacca “restaurata et decentissime ornata”, con l’altare ben provvisto di tutto il necessario per la celebrazione delle messe: vi si celebrava sovente e il giorno della commemorazione dei defunti il clero e il popolo vi si recavano processionalmente. Nel primi decenni del XIX secolo tornarono, evidenti, i segni del degrado e la proibizione vescovile a che venisse adibita ad usi profani, fa ritenere che fosse ormai abbandonata e non più officiata.

La chiesa è ad aula rettangolare che ha internamente le dimensioni di circa 5,8 x 3,7 metri e termina in una piccola abside che conserva, nel semi-catino, un affresco raffigurante l’Annunciazione. Un’iscrizione collocata sotto l’affresco absidale indica nel 1400 la data dell’edificazione della chiesa (ma si tratta di indicazione senza riscontri). L’abside mostra, all’esterno, una cornice di archetti pensili all’altezza di 1,50 metri dal suolo. Con la muratura su cui questa cornice è innestata, costituisce probabilmente la parte superstite dell’originaria costruzione, ascrivibile a fine XIII – inizio XIV secolo. Un recentissimo restauro ha provveduto a renderla funzionale con il rifacimento del tetto e lo sbancamento del terreno dietro l’abside peril risanamento dell’intero edificio.

Foto e testi – Fonte: www.valrilate.it

Cortazzone – San Secondo

Al tempo in cui la sua esistenza e attività appaiono documentate, la chiesa di S. Secondo dipende dal vescovo di Asti. Questa dipendenza viene confermata dal fatto che nel 1300 il vicario del vescovo, su richiesta dei signori di Cortazzone che ne detenevano il patronato, conferiva l’incarico di rettore e amministratore ad un sacerdote da loro presentato. Mezzo secolo più tardi (1345), la chiesa di Cortazzone fa parte del distretto della pieve di Montechiaro, direttamente dipendente dal Capitolo della Cattedrale di Asti. La decadenza della chiesa fu probabilmente conseguenza dello sviluppo dell’insediamento intorno al castello del luogo, anche se la chiesa che qui fu costruita assunse il titolo di parrocchiale soltanto nel 1660.

Risulta che nel 1585 vi si celebrava la messa soltanto una volta all’anno, ma le condizioni dell’edificio erano ancora abbastanza buone, così come ben conservati apparivano gli affreschi che ornano il catino absidale. Interventi di restauro furono compiuti a cura della Sovrintendenza ai Monumenti nel 1965/66 e consistettero nel rafforzamento delle fondazioni con calcestruzzo, ripassatura del tetto e abbassamento del livello del piazzale antistante la facciata, per impedire il deflusso delle acque contro di essa.

L’edificio, situato in zona collinare, a circa un chilometro ad ovest dell’abitato di Cortazzone, è orientato ed ha una pianta basilicale a tre navate, ognuna delle quali termina con un’abside semicircolare. Nella facciata, la muratura – in gran parte in blocchi di pietra – s’innalza nella parte centrale con un ordito di mattoni, alla sommità del quale vi è un campaniletto a vela, dotato di campana, costruito nel XVII secolo. L’ingresso si presenta con doppio arco di pietra delimitato superiormente da una cornice orizzontale di conchiglie. Agili semicolonne dividono le parti laterali della facciata e si ritrovano, alternate a semipilastrini, per tutto il perimetro dell’edificio. Sui capitelli s’impostano gli archetti che fanno da coronamento alla muratura. Sotto alcuni archetti – ai lati della cornice di conchiglie e al centro dell’arco in pietra – si ammirano sculture zoomorfe (2) ed antropomorfe (1).

La zona absidale si presenta ricca di elementi geometrici nel coronamento, specie quello dell’abside centrale e dell’absidiola sud, con le alte fasce decorative, le sculture a foglie dei capitelli sulle semicolonnine e sulle lesene rettangolari, la varietà delle mensoline su cui poggiano gli archetti pensili. Interessanti sculture si osservano anche negli intradossi degli archetti: tra queste un curioso acrobata e le mammelle, simbolo di fecondità.

Circa le fiancate, quella a nord si presenta – come altrove – piuttosto disadorna, se si escludono gli archetti pensili del coronamento. La parete laterale sud è invece particolarmente ricca nella decorazione scultorea, soprattutto nella parte alta della navata centrale, con l’alta fascia a intrecci, fregi, fogliami e viticci, ora interrotta, ora ripresa; e poi figure, tra cui quella di uomo-donna stilizzati, capitelli scolpiti, cordonature che coronano le tre belle monofore. Nella parte bassa, ancora capitelli e archetti scolpiti a fogliami, una croce, testine umane, animali e la bella aquila in cornice quadrata sopra un pilastrino, ed altro ancora.

L’interno (3), a tre navate, è diviso in cinque campate da colonne e pilastri alternati, con capitelli scolpiti su cui s’impostano gli archi. Le volte sono a vela, con archi trasversali a sesto acuto sulla navata centrale, a vela sulle navate laterali, a semicatino sull’abside centrale e su quelle laterali.

Nella volta dell’abside centrale vi è un affresco del XIV secolo. Restaurato nel 1992, raffigura i santi Secondo, patrono di Asti (tiene la città in mano) e Girolamo, dottore della Chiesa, in vestito cardinalizio con leone a fianco, identificato talvolta con l’astigiano San Brunone o con il vescovo di Pavia San Siro.

Stupefacente e misteriosa la decorazione interna di capitelli e semicolonne, in parte non finita (appositamente o per caso?). Non si tratta però di gioco di fantasia, ma – come sempre nel mondo romanico – di rappresentazione simbolica. Nel caso sarebbero raffigurati i vizi da combattere (come la lussuria nelle sirene a doppia coda o nelle lepri, l’orgoglio nei cavalli alati o ippogrifi) e le virtù da acquisire (uccelli che beccano il seme della sapienza).

Foto e testi – Fonte: www.valrilate.it